Poter toccare un’armatura vecchia di quattro secoli è un’emozione molto forte.
Piccola, solida, complessa. L’armatura di un samurai è un capolavoro di sartoria militare e di artigianalità.
I materiali sono quelli offerti dalla natura – il metallo pesava ed era caro ed era usato solo in minima parte.
La taglia rivela la corporatura minuta di chi la indossava, eppure, sistemata nell’espositore, sembra custodire come un guscio la potenza e la temibilità dei samurai.
Risalta subito l’eleganza dei finimenti e delle decorazioni: allora come oggi il senso estetico giapponese coniuga funzionalità e decoro, anche là dove meno te lo aspetti.
Katana e wakizashi sono leggere, perfette, bilanciatissime. Tutto è conservato come se dovesse essere pronto all’uso.
In questo monastero sul monte Koya sono conservati cimeli che testimoniano gli snodi della storia giapponese. Ammiriamo l’armatura che appartenne a Dom Justo Takayama, sul cui elmo spicca una croce.
Parleremo di lui in un’altra occasione. Qui notiamo soltanto il fatto che nel cuore del buddismo è conservata una reliquia di colui che è stato innalzato all’onore degli altari come martire cristiano.
In questa coesistenza di piani distinti si coglie il tratto tipico della mentalità giapponese, che integra e contemporaneamente distingue. Che accoglie e tiene a cortese distanza.
Queste armature portano con sé la lunga scia di guerre che hanno attraversato.
Servire con totale dedizione, combattere per una giusta causa, dedicare se stessi alla disciplina.
Avvertiamo il fascino di questa vita e comprendiamo meglio l’intimo travaglio che i figli di questa terra hanno dovuto superare quando tutto intorno a questo mondo è crollato e si è resa necessaria la ricerca di un senso nuovo.
Di armature e di spade deposte, di tecniche usate per comprendere e trasformare, di nuove prospettive.